Menu principale:
Jobs Act, se il diritto al lavoro si chiama occupabilità
di Alberto Orioli
da ILSOLE24ORE del 27 dicembre 2014
Lo sforzo c'è stato. Il contenuto riformista delle legge delega e dei due primi provvedimenti delegati è indubbio, anche se resta minore di quanto promesso. Si poteva fare di più, come sempre, ma la natura anomala della coalizione di Governo lo avrebbe consentito solo al prezzo (impossibile ora) del suo stesso dissolvimento.
Nel complesso la riforma “vale”, negli effetti di modernizzazione, quella del '97 che introdusse in Italia per la prima volta il lavoro interinale, eliminando il tabù del monopolio pubblico del collocamento e con esso il pregiudizio dell'Italietta bracciantile secondo cui ogni tentativo di far incontrare domanda e offerta di lavoro fosse bieco “caporalato”.
Anche in questo caso è stato in gioco il tabù dell'articolo 18. Renzi l'ha definita una «rivoluzione copernicana» e con abile operazione di comunicazione le ha restituito, sul filo di lana, una connotazione di sinistra (ad uso della minoranza interna al Pd) annunciando di non avere assecondato le richieste di Ncd (e di Forza Italia) sulla licenziabilità per scarso rendimento e di non avere concesso alle imprese la clausola dell'opting out che prevedeva una dote supplementare di indennizzo per evitare la sanzione del reintegro in caso di licenziamento illegittimo (facoltà che invece è rimasta in capo al lavoratore).
Tattica politica a parte, questo jobs act non riesce a superare i dualismi del mercato del lavoro italiano (e anzi ne crea di nuovi tra vecchi e nuovi assunti, tra pubblico e privato, tra grandi e piccole imprese e tra contratti a termine e a tempo indeterminato); però tenta di spostare la concezione del diritto dal posto di lavoro (anni 70) all'occupabilità, secondo i dettami di un riformismo che in Europa ha attecchito da ben più tempo. E tenta anche di introdurre un po' di quelle buone pratiche della riforma Hartz IV che tanta parte ha avuto, dal 2005 a oggi, nelle “rinascita tedesca”.
E forse sul nuovo concetto di occupabilità si è riflettuto troppo poco perché la discussione, come sempre negli ultimi 20 anni, è stata polarizzata dalle fazioni pro o contro l'articolo 18 e ha sviato una valutazione più serena e ampia delle vere urgenze del mercato del lavoro italiano.
Per la prima volta si tenta di abbinare il tema della flessibilità in uscita e della perdita del lavoro al diritto a ottenere forme di accompagnamento a un nuovo traguardo lavorativo. E per la prima volta si prende atto che devono essere lo Stato o soggetti specifici destinati a questo scopo, e non l'impresa, a farsi carico della fase di passaggio tra un lavoro e l'altro. Non è cosa da poco: l'idea anni 70 che l'impresa dovesse essere anche ammortizzatore sociale ha bloccato parte della modernizzazione trascinando agonie di aziende senza futuro e impedendo il rinnovamento fisiologico, fatto di crisi e rilancio. Il nuovo diritto all'impiegabilità passa dal contratto di ricollocazione e dalla nuova Aspi. La logica è semplice: se l'impresa licenzia c'è il welfare state di un Paese moderno che si prende in carico chi perde il posto e cerca di facilitarne la ricollocazione con formazione mirata e attività di assistenza nella ricerca di una nuova opportunità di lavoro mentre gli garantisce forme di sussidio al reddito. C'è una indennità unica e universale, finanziata da tutti e reversibile se chi cerca un lavoro rifiuta il posto che gli viene offerto; c'è un sistema di voucher legato al contratto di ricollocazione che “remunera” le agenzie impegnate a ricollocare i disoccupati.
La riforma completa (e rivede) la parte negletta della precedente riforma Fornero, proprio quella relativa alle politiche attive, sacrificata da un dibattito parlamentare ideologizzato e concentrato solo sul tabù dell'articolo 18. Spostare l'attenzione sulla necessità di creare una rete efficiente per far incontrare domanda e offerta e gestita dalla stessa entità responsabile delle erogazioni degli assegni di sussidio è un indubbio passo avanti. Ora è cruciale che sia conseguente la dotazione finanziaria per far funzionare la nuova Agenzia nazionale. Ed è auspicabile che non si debba registrare l'ennesimo contrasto tra Regioni - oggi titolari delle poco efficienti agenzie per l'impiego - e potere centrale: questa modifica del resto impatta anche il Titolo V della Costituzione così come rivisto dopo l'ubriacatura federalista.
Colpisce, per tonare alle conseguenze immediate della riforma, come il contratto di ricollocazione - per i misteri della stesura finale del decreto delegato - rischi di essere possibile per chi abbia deciso di fare ricorso contro il licenziamento, ma non per chi abbia concluso un accordo sul proprio licenziamento o abbia accettato la conciliazione o ancora abbia evitato di impugnare davanti al giudice il recesso. L'intento del legislatore è di evitare che questo beneficio diventi disponibile per chi sia stato licenziato per gravi motivi, ma se non sarà riformulato rischia di penalizzare chi abbia rinunciato ad atteggiamenti conflittuali. È il caso che nella discussione per il parere delle Camere questo tema venga affrontato con la giusta luce.
Così come meriterà una nuova riflessione anche il tema della nuova forma di conciliazione, snodo cruciale per la gestione delle nuove fasi di flessibilità in uscita e per ridurre il (serio) rischio di aumento delle vertenze davanti al giudice. L'indennità “alla tedesca” (mutuata dalla riforma Hartz) offerta in sede di conciliazione e variabile da 2 a 18 mensilità esenti da tasse e da contributi sembra escludere - sempre per effetto delle stesura ministeriale dell'ultimo minuto - la trattativa individuale. Perché questa stessa modalità viene incardinata alle sedi proprie degli accordi sindacali amministrativi o giudiziali. La trattativa individuale doveva essere il canale privilegiato in nome della cosiddetta “disintermediazione” sociale perseguita dal Governo Renzi. Ma non sarà così. Tuttavia finora la conciliazione più efficiente è stata quella condotta da imprese e sindacati. Che a questo punto hanno l'occasione di dimostrare i loro effettivi sforzi di modernizzazione delle relazioni industriali e la loro reale volontà di imboccare la strada - molto responsabilizzante - scelta a suo tempo dai loro colleghi tedeschi